All you need is flower: nei giardini di Felipe Cardeña
Lorenzo Viganò

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È per me un’emozione, oltre che un piacere, presentare le opere di Felipe Cardeña. I suoi collage, di cui ho potuto seguire l’evoluzione, dall’intuizione iniziale all’apparire, sempre più definito, della loro anima, del loro linguaggio – una sorta di «fioritura dell’opera», di vero e proprio «sbocciare artistico» – hanno avuto fin da subito per me un significato particolare. Un profumo legato all’infanzia, a quel periodo della vita che pur vissuto con la percezione del mondo – e del tempo – che si ha da bambini (o forse proprio per questo), rimane dentro in maniera indelebile, pronto a soffiare la sua fragranza all’ascolto di una musica, alla vista di un’immagine, al ritrovamento nel cassetto dello sgabuzzino di casa di un oggetto che, chissà come, ci siamo portati dietro negli anni.
Si dirà che è il lifting della memoria a rendere indimenticabile il passato, facendo appassire le difficoltà per lasciare vivi solo i ricordi più belli, quelli che scaldano. Ma non è così, o almeno «non solo», nel caso dei giardini di Felipe Cardeña. Che per me hanno funzionato e funzionano da macchina del tempo. I suoi acquari floreali – il primo non-fiore a entrare in un suo quadro è stato guardacaso uno smarrito e spaventato pesce – sono il fondale degli anni Sessanta, dei «miei» anni Sessanta. Degli ultimi della seconda metà, per l’esattezza, che hanno sconfinato fino nel decennio successivo. Sono i fiori dei figli dei fiori stampati sulla mia prima cravatta vera (sempre da bambino, ma finalmente senza l’elastico!) che mi comprò mio padre in quegli anni, quando mettevo nel mangiadischi A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum nella versione italiana dei Dik Dik e mi incantavo davanti alle rare foto dei Beatles che riuscivo a recuperare e alla copertina del loro ellepì collection Oldies.
Nelle cover dei 45 giri di allora, nelle foto sui rotocalchi, persino nelle pubblicità di Carosello (solo quelle più «giovani», però) c’erano sempre dei fiori da qualche parte: disegnati, scontornati, stampati sulle camicie, ricamati sulle giacche, infilati tra i capelli di qualcuno. Ora quei fiori erano arrivati anche sulla mia cravatta, che infilavo e sfilavo dalla testa per non sciogliere il nodo che non sapevo fare. Anch’io avevo qualcosa di beat, di hippy, di rock – quando si è piccoli non si fanno troppe distinzioni. Anch’io ero diventato, se non proprio un figlio dei fiori, un loro fiancheggiatore; parte di quel mondo di pace e amore, di colori e di disegni sul corpo, di capelli lunghi e perline, di sorrisi, musica e spensieratezza, che pensavo non sarebbe finito mai. Che per me era la vita, e non un momento di essa.
La cravatta ce l’ho ancora, il mondo per il quale aveva fatto da lasciapassare invece non c’è più.
Sopravvive nei revival che ciclicamente ne amputano un pezzo – la psichedelia nella musica e nella grafica, l’ombelico scoperto e i pantaloni a vita bassa nella moda… –, nelle citazioni artistiche, nei saggi sociologici, che lo identificano via via come un periodo (con il relativo movimento) ora da dimenticare ora da rimpiangere. Ma lo spirito che lo animava, quel vento che soffiava su ogni cosa e che anch’io respiravo insieme a tutti gli altri, non soffia più. E non mi importa qui stabilire perché passò, se si trattava solo di un’ingenua illusione, di un’utopia, se fu il potere a sopraffare l’immaginazione o se gli ideali di libertà e rivoluzione vennero distrutti dalle droghe, se il sogno si infranse a Woodstock o era già svanito mentre i Rolling Stones scrivevano You Can’t Always Get What You Want (Non puoi sempre avere quello che vuoi). Ciò di cui sono sicuro è che non l’ho più sentito. Che sono cresciuto custodendo più nel cuore che nella mente il ricordo e il calore di un’onda positiva. Magari sperando, inconsciamente, che qualcosa l’avrebbe riaccesa – e che la mia cravatta sarebbe tornata utile, prima o poi. 

Felipe Cardeña ha risvegliato quel mondo, quell’emozione.
I suoi collage, soprattutto di fiori, ma anche di frutti, agrumi, ortaggi, di animali mimetizzati tra gardenie e peonie, azalee e myosotis, sono un alito di quel vento. Che è passato sugli anni intorno al 1967 ed è arrivato fino a noi. Sono i fiori piantati nella Summer of Love, nell’estate dell’amore, di cui Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles fu la colonna sonora, che sbocciano quarant’anni dopo. Sono i figli diretti del magico autobus dei Merry Pranksters di Ken Kesey guidato da uno strafatto Neal Cassady (immortalato da Kerouac nelle pagine di On the Road) e della Rolls Royce psichedelica di John Lennon; della Swingin’ London e della visionarietà dei Pink Floyd, del tessuto per bambini con cui Paul Smith confezionò la prima camicia fiorata e dei vestiti che si vendevano nelle boutique di Chelsea a Kings Road, come I Was Lord Kirchener’s Valet frequentato da Jimi Hendrix; sono quei giardini primordiali, simbolo del ritorno alla natura tanto auspicato dai movimenti controculturali di San Francisco, che tornano a fare da scenario a un mondo che i Biechi blu hanno reso sempre più grigio, come avevano intuito Lennon e McCartney nel cartone animato Yellow Submarine di George Dunning.
È come se i fiori infilati nelle canne dei fucili della polizia dai pacifisti o quello offerto da una giovane ragazza ai militari nella marcia su Washington contro il Vietnam nella celebre immagine di Marc Riboud si fossero allungati fino a noi, incollandosi sulle tele del periodo indiano di Cardeña, insieme al fiore stilizzato, logo della boutique di Mary Quant, ai colori del collettivo The Fool (che disegnarono i muri esterni della Apple Boutique di Londra), alle meraviglie incontrate da Alice nel suo viaggio in un’altra dimensione e alle visioni fantastiche di disegnatori fantasy come Mati Klarwein, John Tenniel, Arthur Rackham e Henry J. Ford, che tanto stimolarono la cultura psichedelica dell’epoca.
Ma Felipe Cardeña, potrebbe obiettare qualcuno, è nato nel 1979, negli anni di piombo, uno dopo l’assassinio Moro, per la precisione. Più vicino alla movida raccontata da Pedro Almodóvar nei suoi film, essendo Felipe artista spagnolo, che al Flower Power e ai raduni rock, allo Human Be-In e alle comuni hippy. (E in più, vista l’età, non ha mai avuto una cravatta a fiori, comprata e indossata mentre nell’aria risuonavano le note di All You Need is Love.)
Ma che importa? I raduni pacifisti contro la guerra in Vietnam, le musiche di Hair, le occupazioni delle università, la partita a tennis di Blow up, le Good Vibrations dei Beach Boys sono entrati nella lavatrice della sua memoria e sono stati centrifugati. Felipe ha letto i Freak Brothers di Gilbert Shelton e Poema a Fumetti di Dino Buzzati; ha vagato nel «cielo di diamanti di Lucy», fantasticando sugli «alberi di mandarino e i cieli di marmellata» e «i fiori di cellophan gialli e verdi che svettano», e «crescono così incredibilmente alti»; ha visto i collage (e i disegni) dell’artista australiano Martin Sharp per Oz, e di Hapshash and the Coloured Coat, le copertine dei Flower Pot Men di Let’s Go to San Francisco e di Midsummer Dreaming, le foto dei Beatles in India accanto al Maharishi Mahesh Yogi, con Donovan e Mia Farrow con le corone di fiori al collo, e le ha metabolizzate.
Ha fatto con i ricordi, con il flusso continuo delle immagini ciò che poi ha continuato con le forbici. Quasi fossero, queste ultime, un prolungamento tridimensionale della mente. Ha visto, perduto, rintracciato, (ri)tagliato, sovrapposto, assemblato, mischiato, incollato – e qui la tecnica del collage è una scelta perfetta, naturale – per poi riordinare il tutto in un nuovo racconto.
Non c’è un centimetro libero nei suoi lavori, eppure non vi regna mai il caos. Può sembrarlo a prima vista, ma già a uno sguardo più attento l’impressione cambia radicalmente. E se poi gli occhi si avvicinano alla tela, e si lasciano liberi di viaggiare di fiore in fiore, come insetti, allora è facile venirne inghiottiti. Risucchiati dalla bellezza di quello Shangrila naturale, dalla sua pace. C’è armonia, nei paesaggi; si sentono accordi di sitar, profumi, suoni della natura, India, umidità.

Giocando con la moderna tecnica del taglia e incolla – sorella più radicale e coraggiosa dell’ormai tanto praticato «copia e incolla» – i giardini di Felipe Cardeña sono così diventati uno stato di coscienza (o di allucinazione?), un trip visivo, la rappresentazione artistica dei viaggi lisergici così tanto raccomandati in quegli anni da Timothy Leary «per elevare la propria spiritualità» e così bene cantati dai Jefferson Airplane in White Rabbit, vero inno agli allucinogeni.
Guardateli: i suoi collage non sono mai album di ricordi, ma flash, frammenti di ciò che si trova al di là di quelle porte della percezione da cui presero il nome i Doors. Sono cartoline oniriche, sogni a occhi aperti difficili da interpretare razionalmente come lo sono sempre i sogni. Apparentemente semplici, ma impalpabili, inafferrabili, che sfuggono non appena si prova a raccontarli.
All’inizio erano giardini dell’Eden, solo con fiori e frutti, limoni e barbietole. Poi, piano piano, hanno cominciato a venire abitati, prima dalle creature marine, poi dai discendenti di Adamo ed Eva; e quei giardini sono diventati fondali, quinte, scenografie su cui si muovono le figure più diverse. Animali, dame con l’ermellino e fate in burka, madonne e buddha, personaggi dell’attualità, di ieri e di oggi, eroi dei fumetti, divi del cinema e volti della televisione, futuristi in cappello e cappotto e automobili bolidiste.
E Dark Lady, come nella mostra che ruba il titolo a un famoso romanzo di James Ellroy, The Black Dahlia (e da quale sennò?), ispirato alla vicenda di Elizabeth Short, aspirante diva del cinema, che nel dopoguerra finì squartata da un assassino rimasto senza nome. La sua bocca, tagliata da parte a parte, avrebbe ossessionato Ellroy: «Pareva sghignazzasse, dava l’idea di farsi beffe delle brutalità inflitte al resto del corpo».
Le donne che si fanno largo nelle tele di Cardeña, però, non sono vittime (o, per lo meno, non lo sembrerebbero), ma femmes fatales a tutti gli effetti, che lasciano il ruolo di sconfitte alla sfortunata Elizabeth per diventare carnefici: Lady Killer, consegnateci dal cinema, ma anche dalla cronaca, che sovvertono l’ordine patriarcale e sfidano gli uomini sul loro stesso campo, quello del potere, della forza, dell’astuzia, del cinismo, senza esitare a usare la loro bellezza e il loro fascino per manovrarli a piacimento pur di raggiungere lo scopo prefissato. Sono le sorelle della Barbara Stanwyck di La fiamma del peccato di Billy Wilder, che seduce il giovane per ammazzare il marito anziano e intascare l’assicurazione, della Lana Turner del Postino suona sempre due volte (che, dicono i maligni, diede però la sua migliore interpretazione al processo per l’omicidio del suo «uomo», il gangster Johnny Stompanato); sono le cugine di Jane Greer di Le catene della colpa di Jacques Tourneur, della Rita Hayworth di Gilda con i guanti lunghi, la sigaretta in mano, della Bette Davis di Ombre malesi, dell’Ava Gardner di Voglio essere tua
Bionde come Lisabeth Scott, nere come Joan Bennett, rosse come Rita Hayworth, cui rubano pettinature e atteggiamenti, e nei lavori di Cardeña diventano fotogrammi noir che sbocciano su schermi pop. Donne belle, cattive, con il trucco perfetto, le calze di seta, i vestiti eleganti; femmine intelligenti e autonome, (anti)bambole dolci e inquietanti, sfacciate e sicure come la Lauren Bacall di Acque del sud di Howard Hawks, pronta a correre a un semplice fischio di Bogart, sempre che lui sappia come fare («Sai che con me non occorrono tante commedie. Non devi dir niente, non devi neanche far niente, neanche un gesto… O, se vuoi, basta un fischio… Tu sai fischiare, vero?»).
Felipe Cardeña, però, non guarda direttamente al cinema, non taglia scene dai film e le rimonta sulla tela. Saccheggia invece i disegni delle copertine dei magazine americani di True Crime degli anni Venti, Trenta, Quaranta e Cinquanta (che proprio al cinema si ispirano) e li muove in nuove storie. Li decontestualizza e li immerge in acque di fiori, ortaggi, animali e frutti (sarà dietro al fondale di gardenie e ginestre, di anemoni e primule che è sepolto il corpo della vittima?). Preferisce i disegni perché hanno più forza narrativa delle foto. E rendono più evocativo l’intreccio dei rimandi tra illustrazioni, film e fatti di cronaca. Ma attenzione: i collage dell’artista spagnolo, in linea con quelli di John Heartfield e George Grosz che ne fecero un’arma satirica contro il nazismo, sanno anche interpretare la realtà, rileggerla; possono fare satira, ammonire e criticare, ironizzare e denunciare. Offrire un punto di vista diverso sui fatti da prima pagina, come dimostrano i suoi disegni che commentano le notizie sul sito ArsLife.com.
E allora il fondale hippy, psichedelico, colorato, ecologico ed ecologista, immaginario e fantastico funziona da amplificatore e accentua il significato delle immagini che ne vengono incorniciate, rendendo il loro linguaggio più diretto e provocatorio: universale. E portando chi guarda a riflettere, scosso dal cortocircuito tra figure e fiori.
Nello stesso tempo, però, il vento degli anni Sessanta che ci investe guardando le tele, che trasporta colori e profumi fino a noi, avvolgendo tutto, donne con la pistola e re inglesi uxoricidi, e che resuscita la forza dei sogni, ci ricorda che anche dietro ai momenti più bui e difficili della vita, persino dietro a quelli più ingiusti e dolorosi c’è sempre un fiore che sboccia.

All you need is flower (flower is all we need).